Giuseppe Cito
Aveva suscitato in me un certo interesse la pubblicazione di un rituale delle esequie che recepiva il nuovo del contesto socio-antropologico: prospettava una maggiore attenzione della comunità alle persone che si ritrovano di fronte al mistero del dolore e della morte e subito ho percepito la valenza educativa di questo strumento per stare di più nella vita delle persone della parrocchia, incontrandole proprio in un passaggio critico dell’esistenza umana.
Ben presto però mi resi conto che, nel mio immaginario, le ‘persone’ erano pensate spoglie del loro vestito culturale e ‘stare nella vita’ significava per me essenzialmente saper tradurre meglio il messaggio di conforto da portare piuttosto che sostare in ascolto del loro dolore. Ne ho fatta esperienza ieri, all’ultimo funerale.
La salma è stata accompagnata dalla casa alla chiesa (circa 3 km) non nel consueto carro funebre ma con una carrozza del novecento trainata da quattro cavalli di razza (murgese) e seguita dalla banda musicale. Non assistevo a uno spettacolo del genere forse da una cinquantina d’anni. E sentii da subito crescere in me qualche resistenza.
Quando, il giorno prima, il figlio del defunto è venuto con l’agenzia funebre per concordare la modalità di partecipazione del parroco mi sono interiormente irrigidito; sentivo repulsione a guidare anche solo per un tratto un corteo così impostato; poi, accortomi della eccessiva rigidità, ho ceduto un poco, assicurando che mi sarei fatto trovare sulla strada, in una piazzetta periferica, per benedire la salma e poi avrei atteso il corteo in chiesa. Ciò che mi rallentò la rigidità fu… la spia del ‘secondo annuncio’. Sono stato a pensarci per tutta la mattina successiva: mi sono detto che non potevo fare un’omelia di ‘contrasto’ alla ritualità laica per esaltare lo specifico della liturgia cristiana. Intanto, il giorno dopo, a benedire la salma è andato il diacono permanente che, a differenza di me, ha scelto di fare tutto il corteo (mi sono anche chiesto se è stata solo accondiscendenza da parte sua o scelta di sapore pastorale, in linea col nuovo rituale delle esequie) ed io ho atteso tre quarti d’ora in chiesa, più pensoso che nervoso, in verità.
Giunse finalmente il corteo. La chiesa era gremita di gente. La porta della chiesa era ancora spalancata e il suono della banda riempiva tutta l’aula liturgica, quando l’organista ha intonato il salmo 129 musicato da Frisina: Dal profondo a Te grido, o Signore, dammi ascolto mio Dio, porgi attenti gli orecchi al mio supplice grido, o Signore. Ho preso spunto dal ritornello e mi sono fermato sul nostro ‘gridare’ al Signore e la legittimità di ogni tipo di lamento funebre. Dentro mi andavo dicendo che evangelizzare la pietà popolare non è eliminarla o demonizzarla. Però non mi veniva ancora l’intuizione giusta per legare quella legittima espressione laica del dolore e la forma cristiana dello stesso (eventualmente ce ne fosse una specifica!)

Alla fine ho optato per un filo di continuità fra le due realtà che probabilmente erano separate solo nella mia mente e non nel vissuto della gente. Ed ho esordito dicendo più o meno così: ‘Cari fratelli, con la musica della banda e il procedere lento dei cavalli avete tentato di lenire il vostro dolore e di elaborare il lutto nel modo che vi è sembrato più consono, ma una volta entrati in chiesa avete sentito il canto di un salmo, un altro genere di musica (ma inizialmente i salmi erano ‘laici’ o ‘liturgici’?) che vorrebbe aiutarci a vivere questo evento triste con uno spirito di fede. La Parola di Dio ci illuminerà e Cristo in persona, risorto per sempre dai morti, prenderà parte al nostro dolore. Ecco la differenza fra il corteo e la celebrazione che sta iniziando’. Sentivo di aver azionato il registro giusto, salvando continuità e specifico.
All’omelia ho ripreso il discorso del corteo funebre (per valorizzarlo pastoralmente o per evidenziare inconsciamente la mia distanza culturale dal loro modo di elaborare il lutto?). ‘Mentre voi venivate in corteo con la banda e i cavalli mi sono messo a pensare e mi sono chiesto se dietro a questo procedere solenne, quasi trionfale, non ci fosse pure la vostra consapevolezza che stavate accompagnando il caro defunto verso una meta altra. Nessuno di voi avrà pensato che un accompagnamento così finisse in un baratro, verso il nulla, tant’è che non siete andati direttamente al cimitero ma siete passati di qui, dalla chiesa’.
Mentre parlavo mi andavo chiedendo, ad ogni passaggio, se stavo realmente favorendo un processo positivo di riflessione nella folla che mi ascoltava o stavo solo seguendo, cocciutamente, un mio tentativo di far entrare nel vissuto della gente un modo ‘altro’ di vedere le cose della vita, magari puntando su quel residuo di ‘fede’ che supponevo rimasta ancora come retaggio di una formazione religiosa pregressa.
Siamo giunti così al termine della celebrazione, al momento del commiato. Alla fin fine, dentro di me ero contento della mediazione tentata durante l’omelia per raccordare la vita concreta con l’annunzio della risurrezione. A questo punto della celebrazione non mi è stato difficile tornare sul ‘viaggio’: È questo il momento in cui Gesù risorto prende in consegna il nostro fratello Giovanni ed è in grado di condurlo fino a quella meta verso cui il vostro corteo idealmente era diretto. Perché non fate la prova, andando verso il cimitero, a chiedervi quanti di noi effettivamente nutrono la speranza di una tappa ulteriore del corteo, un supplemento quasi? E mentre me ne tornavo in sacrestia mi sono ritrovato a pormi anch’io la stessa domanda: verso dove sto conducendo io tutta questa gente? A quali condizioni il mio accompagnamento ‘liturgico’ risveglia il desiderio di una meta ‘altra’ nel cuore di queste persone? Cosa mi manca per far desiderare l’oltre?